De bello Gallico / Libro VII, 52

Postero die Caesar contione advocata temeritatem cupiditatemque militum reprehendit, quod sibi ipsi iudicavissent quo procedendum aut quid agendum videretur, neque signo recipiendi dato constitissent neque ab tribunis militum legatisque retineri potuissent. Exposuit quid iniquitas loci posset, quid ipse ad Avaricum sensisset, cum sine duce et sine equitatu deprehensis hostibus exploratam victoriam dimisisset, ne parvum modo detrimentum in contentione propter iniquitatem loci accideret. Quanto opere eorum animi magnitudinem admiraretur, quos non castrorum munitiones, non altitudo montis, non murus oppidi tardare potuisset, tanto opere licentiam arrogantiamque reprehendere, quod plus se quam imperatorem de victoria atque exitu rerum sentire existimarent; nec minus se ab milite modestiam et continentiam quam virtutem atque animi magnitudinem desiderare.

1 commento:

  1. L'indomani Cesare ordinò l'adunata e rimproverò l'avventatezza e la smania dei soldati: da soli avevano giudicato fin dove si doveva avanzare o come bisognava agire, non si erano fermati al segnale di ritirata, né i tribuni militari, né i legati erano riusciti a trattenerli. Spiegò quale peso avesse un luogo svantaggioso e quali erano state le sue considerazioni ad Avarico, quando, pur avendo sorpreso i nemici privi di comandante e di cavalleria, aveva rinunciato a una vittoria sicura per evitare anche il minimo danno nello scontro, e tutto perché la posizione era sfavorevole. E quanto ammirava il loro coraggio - né le fortificazioni dell'accampamento, né l'altezza dei monte, né le mura della città erano valsi a frenarli - tanto biasimava la loro insubordinazione e arroganza, perché credevano di saper valutare circa la vittoria e l'esito dello scontro meglio del comandante. Da un soldato esigeva modestia e disciplina non meno che valore e coraggio.

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